sabato 18 dicembre 2010

valmont

Ma io voglio una posizione più innocente.
I test per le signore con un trifoglio verde
E la più bella foglia è il mio amante.
Se solo potessi, il suo muoversi spirito di ghiaccio,
Vorrei infiammare senza dire: "Io amo".
Guardami negli occhi e vedere
vi è l'uomo più fedele di me? "
. Si guarda, sorride, ma lei non parla.
Spero che questo silenzio, impegnandosi non si romperà.

Solerte

Suole, rannicchiata, adombrare l’angolo di quella stanza sempre buia; da sempre anonimo granello di polvere, inessenziale pezzo d’arredamento tra quei muri inespressivi. Più volte ho tentato invano di toglierla da quell’aria stagnante e ossessiva, ma sembra preferire restarci, per poter avere un pretesto ― giacere in un luogo che non è casa di alcuno ― che giustifichi il fatto di non avere una casa, da nessun’altra parte. E ormai mescolare il suo respiro flebile, ruvido, infantile, alle particelle di vuoto che aleggiano nell’aria, posandosi sulle sue labbra paradossalmente rosee e incorrotte, èesente da ogni fatica, è naturale. Il passo da questo a smettere di respirare, lasciandosi inerme strappare il fiato, sarebbe breve e straordinariamente immediato; ma io non glielo permetto.

Non mi permette di vivere lì dentro con lei, ma mi concede, di tanto in tanto, di andarla a trovare, e vorrebbe anche farmi credere che sia il vento ― quando non ce n’è affatto, nella sua stanza ― a sollevarela gattaiola per farmi entrare. Ma il lieve tremore delle sue palpebre, sempre socchiuse al mio arrivo, la tradisce; inoltre, io so che mi attende. Non me personalmente, in realtà, ma quello che le porto in dono.

Stretta nel giubbotto nero, bianca la mano che appoggia sul pavimento, mentre l’altra le preme lo stomaco e le spalle incurvate che protendono verso le ginocchia implicitamente chiudono il suo petto in una gabbia poco affidabile. Tiepido e facile ostacolo, il cappuccio nero che le nasconde il viso, lasciando però intravedere quella sua bocca così arida, mascolina, ma piena; ed essendo la sua bocca cosparsa di amaro, è lei eternamente insaziata, eppure mai affamata. Dacché non rimane che una bellissima carcassa stillante vita malata, inguaribile, ma guaritrice coloro che sanno accostarsile.

M’inginocchiole accanto: la sorella complice che non ebbe. Ma lo sguardo che mi rivolge non contiene affetto, né connivenza, né particolari aspettative: sollevati gli occhi castani, vedo solo l’iride tremare, scossa dalla disarmante dignità che con forza ostenta. Ed ancora una volta, dalla caparbietà di lei ramo secco inestirpato, sono vinta.

Comprendo il suo intento di mostrarmi la sua forza, di convincermi che essa le basti e che di null’altro abbia bisogno. Lo so, Lisb’, le vorrei sussurrare. Invece chino il capo, mostrandomi remissiva e succube; giacché voglio che, per una volta, non lei si senta subietta, ma che il giogo impostole dai tanti antagonisti di quella fiaba rovinata che è la sua vita si sbricioli, la lasci respirare. Voglio resituirle, anche per un solo istante, quella forza che finge di possedere, che le spetta eappartenerle dovrebbe.

La vedo rilassare le membra, prima di sporgersi verso di me e di premere con rude decisione le sue labbra sull’angolo della mia bocca, per poi bruscamente allontanarsi di nuovo e guardarmi, con sfida questa volta. E alla sua infantile ingenuità smascherata, travestita da indifferenza sotto gli infiniti strati di nero che indossa, scocco una risata sfiatata, ironica. Ma a questo vuole ribellarsi, lei, e si getta con slancio a carpire la mia risata pungente per non farsene offendere: la ingoia, e si fa aspra despota di un bacio feroce a cui rispondo con contrastante gentilezza.

Lascio che sia lei a spogliarmi per prima, senza opporre resistenza né partecipare con lei: le permetto di continuare il suo gioco, di fingersi guida e padrona; lei che è sempre stata costretta a seguire e obbedire. E solo quando mi vede innocua, disarmata, leggo sul suo viso la resa tranquilla: ripone l’arma e concede a se stessa di smettere la lotta. Allora, posso con le dita azzardare a rimuovere le protezioni di cui si scherma: esploro i contorni degli oggetti fasulli di cui si ricopre e sciolgone i nodi ad uno ad uno.

E in nessun altro modo può essere; perché lei solo con il sesso sa comunicare. La sua rabbia, la sua resa, il suo sarcasmo, la sua gratitudine, il suo sollievo, il suo dolore, trovano espressione soltanto nelle movenze del suo corpo e nelle loro coreografie sincopate, dalla forma imprecisa e violenta, come tracciate da una matita spezzata.

È accanita e indefessa anche quando fa l’amore, Lisbeth. Compreso di poter ricevere qualcosa, vuole prima di tutto prenderselo, con ogni mezzo; ed è poi quasi imbarazzata, spiccia, quando cerca di dare a sua volta. Mi sconvolge pensare che sia proprio questo che lei attende. Non una parola amorevole, non la compassione, non il conforto di una voce che viene a lei come amica; non la comprensione, nemmeno l’amore, che anzi fugge con malcelato terrore.

No: ho imparato che lei attende qualche cos’altro, ed è ciò che le porto in dono: la possibilità di parlare, di esprimersi. La carnalità che le permette di sentire la vita, di interrompere il flusso stagnante di fantasmi che le corrode la mente, di ribadire a se stessa che vale almeno quanto chi le si concede. Soprattutto questo le porto: qualcuno che le si conceda, invece di prenderla con la forza, ad armi impari. Una qualche parvenza di complicità, in presenza della quale lei sente finalmente di poter amare se stessa.

Lisbeth non si lascia consolare, carezzare, rassicurare; e tanto è sempre stata un bersaglio facile, un corpo da prendere e strattonare, tanto è impenetrabile, impossibile da sfiorare oltre ciò che è visibile agli occhi. Lisbeth non si lascia amare.

Eppure, quando si muove insieme ad una persona a parità d’armi e di ruoli, sentendo morire la necessità di guardarsi le spalle, riesce ad amarsi. Lei che vive d’autosufficienza e autonomia, trova l’indipendenza, la libertà vera solo se sceglie di darsi ad un’altra persona.

Non sono tanto presuntuosa da credere che abbia importanza che quella persona sia proprio io; per il momento, però, sono qualcuno che la cerca, e che si rende disponibile a farsi ghermire per darle del sollievo. Ovviamente, anche a me resta qualcosa ― dentro; ma questo ha ben poca importanza.

Sono sempre la prima ad addormentarsi, o almeno così credo: non ho mai visto lei dormire. Al mio risveglio, la trovo seduta in un angolo diverso, di nuovo coperta da tutti quei vestiti scuri mascheranti; fuma, naturalmente, con lo sguardo che vaga tranquillo qua e là, a spiare i bordi di quella stanza che ormai conosce a memoria. Qualche cosa è cambiato da com’era prima che arrivassi: le gambe sono rilassate, il cappuccio è abbandonato sulle sue spalle diritte, il petto si alza e si abbassa al ritmo regolare del suo respiro.

Osservo la sua figura irrorata da un evidente calore, che spero abiti il suo corpo il più a lungo possibile e, alzatami, mi avvicino a lei. Mi guarda con un’espressione tenue, come di una bimba ancora passibile d’illusioni e di speranze, e quando le do un buffetto sul mento ricambia persino il mio sorriso. Credo che voglia dirmi grazie per ciò che le ho dato: rispondo al suo sguardo con un’occhiata intensa promettendo di ritornare presto. Le sfioro sfuggevolmente la mano alzandomi e mi allontano, camminando verso la gattaiola.

Non mi guardo mai indietro, e credo sia meglio così: non voglio vedere ―non voglio che veda che vedo ― il suo viso che s’incupisce, già sentendo gli inizi del freddo che tornerà ad impadronirsi del suo corpo, lei che non vuole che io resti lì con lei sempre. Non vuole che qualcun altro marcisca al freddo con lei ed è troppo testarda per farsi convincere che in due ci si dà calore a vicenda. Mi lascia andare, ed è contenta ― lo so ― che non abbia aspettato obbligandola a mandarmi via lei.

Io posso sapere queste cose; ma ciò che accade a Lisbeth quando la gattaiola si chiude dietro di me, e lei si ritrova nuovamente sola, nel buio di quella stanza vecchia e logora, non saprò mai.

E per questo sono profondamente, vigliaccamente grata